Il mito di eleusi psichedelica
Una recente indagine condotta da Sharday Mosurinjohn e Richard Ascough, studiosi di religione della Queen’s University, canadese conferma l’improbabilità dell’ipotesi sull’uso di pozioni psicotrope (kykeon o ciceone) nei riti segreti del culto greco di Eleusi, sostenendo anzi che continuare a proporre simili tesi può risultare dannoso a vari livelli. Inizialmente proposta da Wasson, Hofmann e Ruck nel noto libro The Road to Eleusis (1978) e poi ripresa da Brian Muraresku in The Immortality Key (2020), in realtà tale ipotesi ha continuamente evidenziato limiti metodologici, ideologici e politici e questo ulteriore studio sottolinea come non esista alcuna prova archeobotanica, chimica o testuale che il kykeon contenesse una qualche sostanza psicotropa.
Va detto innanzitutto che i ricercatori canadesi spiegano esplicitamente di non voler entrare nel merito di questa diatriba insoluta, puntando invece a sottolineare la necessità di comunicare in maniera veritiera ed efficace sulla storia e sulla cultura psichedelica, anziché́ proporre una visione specifica (e talvolta controversa o finanche errata) del passato. Occorre cioè evitare di proporre “una sorta di fondamentalismo religioso” assegnando un pedigree autorevole e romantico alla civiltà occidentale, onde ridare dignità all’uso di sostanze stigmatizzate e rivitalizzare ogni esperienza mistica. In questo caso, l’Antica Grecia diventa così l’origine simbolica della “vera” spiritualità occidentale che si presume sia stata soppressa.
L’idea che le religioni derivino originariamente dall’uso rituale di sostanze psichedeliche è stata denominata da J. Christian Greer, un esperto di studi religiosi con focus sulla cultura psichedelica presso l’Università di Stanford, come paradigma enteogenico. È una visione totalizzante che reinterpreta tutta la storia della religione attraverso la lente delle sostanze psicotrope minimizzando le pratiche non farmacologiche – cioè lo specifico contesto centrato su rituali, preghiere e cerimonie varie.
Ancor oggi l’ipotesi dell’Eleusi psichedelica tende spesso ad emergere nei contesti legati all’odierna cultura psichedelica e in convegni scientifici. Tuttavia, non viene seriamente affrontata dagli studiosi di religione e dai classicisti, con rare eccezioni – non solo per timore dei tabù antidroga, ma anche perché, come rivela l’indagine di Ruck e altri, si ignorano completamente la metodologia e la letteratura accademica dei vari settori coinvolti. Ancor più evidenti le lacune del libro (romanzato) di Muraresku, che riprendendo ciecamente tali teorie continua a “promettere la ‘smoking gun’ della conferma definitiva spingendo così il lettore a girare una pagina dopo l’altra, senza mai mantenere tale promessa”, nell’attenta analisi di cyberdisciple .
Qualcosa di analogo si applica all’ayahuasca: l’eccessivo entusiasmo del recente revival psichedelico (e l’annesso turismo sciamanico) sembra averne gonfiato anche l’uso tra gli indigeni, che secondo studiosi quali Peter Gow (1994), Brabec de Mori (2001) e Martin Fortier (2018), non era né ancestrale né comune, come oggi invece si tende a credere – spiegando che l’ayahuasca si è invece diffusa nell’Amazzonia peruviana al più negli ultimi 300 anni. Sullo stesso piano ruotano parecchie speculazioni proposte da Terence McKenna, come quella tanto affascinante quanto mai comprovata dello stoned ape: l’evoluzione cognitiva sarebbe stata causata o facilitata dalla presenza di funghi psilocibinici nella dieta umana circa 100.000 anni fa.
In questo panorama i Misteri eleusini operano come mito fondativo per il moderno movimento psichedelico e legittima l’uso contemporaneo degli psichedelici in ambito occidentale ricollegandoli a un’antica tradizione “sacra”. Ma ben vedere l’intera ipotesi ruota attorno ad interpretazioni speculative di testi antichi ed inferenze circolari: si parte dall’idea stessa che ci fosse una qualche molecola psicoattiva, per poi cercare indizi che confermino l’assunto iniziale. Il kykeon viene menzionato in varie fonti antiche, in particolare nell’Inno a Demetra, ma gli ingredienti attestati erano acqua, farina d’orzo e Mentha pulegium.
Si dice che l’orzo sarebbe stato contaminato dalla Claviceps purpurea, un fungo parassita che produce alcaloidi lisergidi. Gli scavi ad Eleusi, tuttavia, non hanno mai restituito tracce di ergot o alcaloidi allucinogeni nella ceramica rituale, nei resti organici o nei sedimenti. Ciò in base a studi di archeometria, cioè l’analisi chimica di residui organici su reperti archeologici, con focus su cibo, bevande fermentate e sostanze psicotrope – studi che invece hanno rivelato residui di ergot in antiche anfore egizie.
Inoltre le fonti letterarie non menzionano né allucinazioni né visioni indotte dalla bevanda: i resoconti degli iniziati parlano di esperienze trasformative, ma non specificamente attribuite alla bevanda, forse dovute piuttosto all’esteso cerimoniale e al particolare setting dei Misteri eleusini.
Siamo cioè di fronte ad un caso evidente di “bias” interpretativo: gli studiosi leggono nei testi antichi esperienze simili a quelle moderne indotte dagli psichedelici e le interpretano retroattivamente come causate da qualche psicoattivo: un classico errore logico. Lo stesso Ruck, ad esempio, associa il termine pharmakeia (φαρμακεία) al significato specifico di “allucinogeni”, senza considerare le molteplici accezioni semanticamente possibili che comprendono l’uso di principi attivi anche medicinali (con una certa predilizione per i purganti), o il riferimento a stregoneria o avvelenamento.
L’ergot è una sostanza alquanto imprevedibile: alcuni ceppi sono letali, altri sono vasocostrittori, altri ancora sono blandi sedativi, non visionari. Non esistono prove di un uso rituale sicuro di ergot nell’antichità: se fosse stato usato su larga scala in riti pubblici con migliaia di partecipanti, le indagini archeologiche avrebbero dovuto portare a tracce storiche di intossicazioni o morti, finora invece inesistenti.
Tutto ciò crea un castello di congetture concatenate: “forse c’era dell’ergot” viene usata come premessa per un’affermazione tipo “quindi l’esperienza era psichedelica”, creando una catena di supposizioni che si rafforzano a vicenda senza prove concrete. Accettando come dato storico l’uso di psichedelici a Eleusi, diversi studi clinici e neuroscientifici alimentano un ciclo autoreferenziale: le ipotesi passano per fatti consolidati sia all’interno della comunità scientifica che nel pubblico in generale.
Tornando allo studio di Mosurinjohn e Ascough, è importante mantenersi neutrali e aperti rispetto all’Eleusi psicotropa, augurandosi è che in futuro, grazie a nuove metodologie e tecnologie ad hoc, anche questo “mistero” venga chiarito. Per quanto ci riguarda, tuttavia, riteniamo utile mantenere un approccio critico su questioni di più ampia portata legate al kykeon Eleusino, al soma Vedico e analoghe ipotesi: se certe argomentazioni storiche dovessero rivelarsi infondate, si rischia infatti di compromette la legittimità dell’odierno movimento psichedelico occidentale. Anche perché il classico cavallo di battaglia, “sono medicine millenarie” o “si usano da sempre”, è fallace. Il fatto che una cosa si faccia da sempre o sia “tradizione” non vuol dire che sia necessariamente qualcosa di positivo o da imitare ciecamente.
D’altronde anche il Paolo Nencini, farmacologo comportamentale e già docente di Farmacologia presso l’Università di Roma Unitelma Sapienza, in un recensione di qualche anno fa scriveva: “L’altro nodo, a mio avviso importante, è quello dell’inquadramento storico dell’uso magico-religioso delle sostanze psichedeliche….ad Eleusi il ciceone non poteva che contenere un fungo psicotropo a scelta e il soma vedico altro non poteva essere che l’Amanita muscaria. Inutile che gli specialisti alzino il sopracciglio, questi convincimenti vengono ripetuti fino ad assumere le sembianze di veri e propri fatti, ma, usando il termine coniato da Norman Mailer, hanno tutte le caratteristiche di fattoidi, qualcosa divenuto fattuale semplicemente perché ripetutamente affermato e divulgato”.
In generale, occorre insomma puntare su ipotesi confermate e su dati concreti, come quelli che dimostrano ampiamente il fallimento del proibizionismo o le potenzialità terapeutiche (o meno) di certe sostanze. E ancor più importante è “relazionarsi con le tradizioni indigene odierne ben documentate, ponendosi in continuità con altri, e forse ancor più antichi, metodi non farmacologici per modificare la coscienza”, concludono gli esperti canadesi. Visto l’attuale dibattito su potenzialità e utilizzi di queste sostanze, è fondamentale che si comunichi in maniera veritiera ed efficace sulla storia e sulla cultura psichedelica, anziché proporre una visione specifica (ed errata) del passato.
Rendere giustizia al potenziale spirituale degli psichedelici oggi non richiede di inventare una visione specifica (ed errata, per quanto “nobile”) del passato, bensì impone di costruire un presente etico, maturo e consapevole.